sabato 19 settembre 2009

Non si uccidono così anche gli agnelli?

Schiacciare una formica è cosa di poco conto, ci si mette un piede sopra, camminando inavvertitamente, e l'insetto è bello e spalmato per terra. Fare la stessa cosa con un insetto di dimensioni maggiori, uno scarafaggio, una cavalletta, una mantide religiosa, è già più difficile e qualcuno neppure riesce a farlo.
Se poi ci si para davanti, quando si va in auto, un riccio, un gatto o un qualche altro animale di piccola taglia, la reazione normale è quella di evitarne l'investimento, talvolta anche a rischio di fare un incidente.
Pensate a come nelle nostre campagne si ammazzano i polli: qualunque massaia è in grado di afferrarne il collo e torcerlo, fino a rompere la colonna vertebrale, e di appendere per i piedi l'animale, agonizzante, che muove ancora, per riflesso condizionato, le ali mentre sanguina dal becco. E per ammazzare un coniglio basta un colpo secco, proprio all'attaccatura della testa, per poi appenderlo per le zampe posteriori e, con un coltello affilato, tagliarne via la pelle, ancora calda, e aprirne il ventre per togliere subito le viscere.
Ammazzare un animale più grande, un agnello od un maiale, è un po' più complicato: nel medioevo, senza farsi troppi problemi, il maiale lo ammazzavano con un paio di robuste mazzate sulla testa, e poi, anche in questo caso, subito correvano a rialzarne il corpo per recuperare il sangue, per farne certe leccornìe come i migliacci o il buristo.

Pensate, invece, come deve essere ammazzare la propria figlia, ma non per un impeto di rabbia, tirandole in testa una bottiglia che è sulla tavola, durante una discussione o aggredendola a calci o pugni, no. Ammazzarla come si fa con un agnello: portare con sé un coltello, affilato e luccicante, aspettare l'occasione buona e poi passarlo sotto un collo dalla pelle ancora tenera, con un po' di peluria, affondare la lama e recidere la giugolare facendo sgorgare, purificatore, un bel fiotto di sange pulsante, che schizza via sotto pressione; pensate a come debba essere gratificante, per un padre, farsi giustizia con le stesse modalità di mille, duemila, cinquemila, diecimila anni fa.
Sì, mi riferisco proprio al signor El Ketawi Dafani che le mani, fino a poche sere prima, le aveva immerse nel rosso succo del pomodoro delle pizze che cucinava, per darle in pasto a tutta quella massa di correligionari e di infedeli che andavano nel locale dove lavorava.
Sono le loro tradizioni, che sarà mai, si dirà, vogliamo forse esportare, oltre la democrazia, anche il nostro modus vivendi di occidentali?
Lasciamo che facciano le loro cose, che si comportino come vogliono, che trattino le donne come oggetti di proprietà e di nessun conto, sdegnamoci qualche minuto poi torniamo a mangiare le loro pizze, i loro cus-cus, il loro kebab.
La moglie dell'individuo di cui si parla ha poi espresso, pubblicamente, sincera condivisione per il bel gesto del marito: chissà se a qualche giudice verrà in mente di togliere ai due la patria potestà sulle figlie superstiti, da affidare presto a chi le possa far crescere da esseri umani; dubito però che qualcuno faccia queste riflessioni.

È indubbiamente un problema culturale: dove ci sono 'tonaconi', vestiti di nero o di bianco o di grigio, l'individuo resterà sempre schiacciato dai terrori e dalle superstizioni di quando era nelle caverne, non c'è niente da fare.

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